L’obiettivo di un ecosistema di eccellenza per il miglioramento delle Politiche Sanitarie.
Gli esperti di big data e statistica sono concordi nel ritenere che le sfide legate all’operazione di trasformare insiemi di dati eterogenei e disordinati in informazioni utili per migliorare le politiche sanitarie non sono di natura tecnica, quanto di natura giuridica e normativa.
Sin dal Patto per la Sanità Digitale del luglio 2016 si prende atto della necessità di alimentare la collaborazione tra istituzioni, accademia, ricerca e società private (come aziende farmaceutiche e aziende che forniscono servizi di analisi dei dati) al fine di migliorare i modelli assistenziali e quelli organizzativi. La collaborazione tra pubblico e privato è quindi volta a diffondere quanto è stato raccolto e alla generazione di nuove evidenze in un processo dinamico di valutazione e implementazione che richiede la partecipazione di diversi portatori di conoscenze. Un assessorato alla sanità può ad esempio ricorrere al know-how di un soggetto privato in grado di svolgere ricerca e analisi sui dati raccolti e sviluppare indicatori in ambito sanitario. Questo già accade in diverse Regioni Italiane. La sfida futura è però quella di gestire e integrare i dati in tutta la catena di valore del farmaco e nella medicina di precisione. Ciò richiede che dati relativi alla storia medica dei pazienti, informazioni genetiche, nonché dati sull’appropriatezza d’uso ed efficacia dei farmaci somministrati vengano tutti integrati, sia per una migliore e più precisa somministrazione di cure e farmaci, sia per il governo e controllo della spesa sanitaria.
La creazione di un ecosistema di eccellenze è anche un obiettivo della Commissione Europea nella più generale politica di incentivi per una “economia europea florida basata sui dati”. Tuttavia, sia nella Comunicazione intitolata “European strategy on the data value chain” del 2013, sia nella Comunicazione “Building an European Data Economy” del 2017 la Commissione evidenzia come esistano delle barriere al pieno sviluppo di tale circolo virtuoso e, in particolare, incertezza giuridica sulle questioni emergenti della proprietà, riutilizzo, accesso e trasferimento dei dati.
Nel regolare tali questioni, non si può non considerare che i vari portatori di conoscenza (enti di ricerca, aziende farmaceutiche e aziende ICT) sono altresì portatori ognuno di propri interessi. Da qui la necessità di una risposta legislativa dedicata e aggiornata che regoli profili giuridici ulteriori rispetto a quelli tradizionali della privacy e sicurezza dei dati, come ad esempio: le regole sui diritti di accesso alle banche di dati raccolti attraverso attività istituzionale o attraverso progetti di ricerca finanziati con fondi pubblici; regole che governino la titolarità dei dati e delle banche dati, nonché delle bio-banche di campioni genetici; e infine regole di trasparenza, imparzialità ed evidenza pubblica delle pubbliche amministrazioni applicabili ai trasferimenti di dati sanitari o semplice “messa a disposizione” dei dati per scopo di ricerca scientifica.
I doveri di trasparenza e imparzialità degli Assessorati alla Sanità .
Per le pubbliche amministrazioni del settore sanitario che decideranno nei prossimi anni di usufruire delle competenze specialistiche di centri di ricerca privati o pubblici sarà molto importante bilanciare il proprio dovere di efficienza dell’azione amministrativa con quelli di imparzialità e trasparenza. Infatti, una maggiore consapevolezza da parte dei cittadini in merito al valore economico delle banche dati contenti dati sanitari (in particolare quelli genetici) impone agli Assessorati di trovare soluzioni giuridiche idonee ad assicurare imparzialità e trasparenza quando mettono i dati raccolti a disposizione di enti di ricerca. D’altro canto, non esistono allo stato attuale regole di evidenza pubblica applicabili alle banche dati, che sono un bene molto particolare. Esistono politiche di open access e open data che sono però applicate più come principi generali cui conformarsi, che come regole esaustive in grado di regolare il fenomeno dei trasferimenti delle banche dati tra enti pubblici, e tra enti pubblici e quelli privati.
Accesso universale e policy dei centri di ricerca.
Il problema esiste anche rispetto alle banche dati e bio-banche risultanti da progetti di ricerca finanziata con fondi pubblici. Esiste nel Codice Deontologico sul trattamento dei dati personali per scopi di ricerca scientifica del 2004 il principio di Universal Access to All Bona Fide Analytical Users, per cui i dati che risultano da progetti di ricerca finanziati con fondi pubblici dovrebbero essere disponibili per qualsiasi ricercatore che voglia svolgere un nuovo progetto di ricerca. Ma se andiamo ad analizzare le policy della maggior parte delle Università e Centri di Ricerca vedremo che raramente contengono norme direttamente applicabili in merito, e pertanto la richiesta di un ricercatore esterno di accedere ai risultati di una ricerca portata avanti da altri ricercatori raramente verrebbe accolta positivamente. D’altronde, in questi casi entrano in gioco anche le regole sulla proprietà intellettuale che tutelano i ricercatori che hanno conferito valore ai dati.
A tal proposito emerge come la regolamentazione di questi trasferimenti o accessi o condivisione di dati non possa non basarsi su una conoscenza della fenomenologia delle attività di arricchimento dei dati. Il concetto di “Data enrichment” che viene spesso usato per le attività di analisi dei dati per scopi di profilazione della clientela, è una definizione più generica che indica i processi utilizzati per migliorare, affinare o comunque migliorare i dati grezzi. Queste attività di arricchimento contribuiscono a fare dei dati un bene prezioso e quindi spesso in esso risiede il valore di una banca dati. Per tali ragioni è in corso un ampio dibattito, ora anche a livello europeo, per valutare l’introduzione di nuovi istituti giuridici che tutelino l’investimento economico e il know-how dei soggetti pubblici o privati che archiviano dati e li organizzano o appunto li “arricchiscono”, dato che il diritto sui generis previsto dalla Direttiva 96/9 CE è stato disciplinato in una fase tecnologica ed economica ormai superata.
Natura privata dell’ente di ricerca e realizzazione di interessi generali.
Quando le attività di accesso o trasferimento riguardano dati sanitari, sembra che vi sia una grande preoccupazione da parte dei cittadini sulla possibilità che banche di dati create grazie ad attività di ricerca scientifica o attraverso la prestazione di servizi sanitari finiscano in mano a società che perseguono scopi di lucro. La vicenda, nota alle cronache, della bio-banca di Shardna poi trasferita a Tiziana Life Sciences PLC rivela come i cittadini siano ben disposti a prestare il proprio consenso al trattamento dei propri dati a enti di ricerca di natura pubblica, ma siano invece particolarmente spaventati all’idea che una società per azioni possa svolgere le medesime attività di ricerca su quei dati.
Eppure anche una società con scopo di lucro può contribuire con il proprio know-how e capitale finanziario, svolgere ricerca e ideare metodi diagnostici e farmaci innovativi che realizzano obiettivi di interesse pubblico. Questo è talmente vero che il nuovo Regolamento Europeo sul trattamento dei dati personali, nel prevedere delle deroghe volte ad agevolare la ricerca scientifica, non opera distinzioni in merito alla natura giuridica dell’ente titolare del trattamento dei dati. Quindi anche una società con scopo di lucro potrebbe giovarsi delle deroghe previste dal Regolamento Europeo se il trattamento è svolto per scopi di ricerca scientifica.
Allo stesso tempo è interessante notare come non si presti attenzione in Europa all’opposto fenomeno, ovvero quello di ricerche scientifiche condotte da centri di ricerca pubblici o Università che poi seguono strategie di sfruttamento economico, attraverso il deposito di brevetti e la creazione di spin off cui si cedono o concedono in licenza i brevetti. brevetti di cui era titolare l’ente di ricerca o l’Università relativa. Sembra meno avvertita l’esigenza di trasparenza rispetto ai trasferimenti di risultati di ricerca e banche dati che conseguono a queste dinamiche. Eppure anche in questi scenari sarebbe ragionevole valutare in concreto se la ricerca realizza interessi generali, soprattutto se banche dati o bio-banche sono il risultato di progetti finanziati con fondi pubblici.
Conclusione.
In questo senso sembra che l’introduzione di nuove regole sugli aspetti della titolarità e trasferimento dei dati sanitari nella cooperazione tra privato e pubblico richiedano una lettura sostanziale degli obiettivi di interesse pubblico e una applicazione non formalistica delle regole di trasparenza ed evidenza pubblica.
Utilizzando una classificazione che abbiamo già proposto in un precedente articolo di questo blog (http://marialuisamanis.nova100.ilsole24ore.com/2018/02/13/data-justice-teorie-di-giustizia-sociale-per-lera-dei-big-data/) piuttosto che regolare ogni singolo aspetto giuridico separatamente, occorrerebbe piuttosto una riflessione preliminare sui presupposti di giustizia sociale che devono indirizzare le scelte regolatorie del futuro. Affianco ad un ideale di giustizia procedurale dell’economia basata sui dati, dovremmo affiancare quello di una giustizia strumentale per la quale può considerarsi equo quell’utilizzo di dati che ha un impatto positivo nei confronti di tutti i cittadini.
Una valutazione di questo tipo, che prescinde dalla natura giuridica dell’ente titolare del trattamento e si focalizza sull’impatto (ancor prima che dello scopo del trattamento) inoltre metterebbe in crisi quel noto paradigma che il mondo della ricerca sventola come una bandiera da tempo, ogni qualvolta il legislatore Nazionale o Europeo chiede ad essa di adeguarsi a generali regole procedurali nel trattamento dei dati personali e riutilizzo. Abbiamo discusso di questo paradigma in un precedente articolo (http://marialuisamanis.nova100.ilsole24ore.com/2017/10/22/research-to-practice-gap-funzione-collettiva-dei-dati-e-condivisione-dei-risultati-della-ricerca/). In sostanza il mondo della ricerca, in particolare degli enti pubblici di ricerca, rivendica il diritto a giovarsi di deroghe al principio del consenso specifico e informato, in quanto sostiene che ogni cittadino ha un dovere sociale di contribuire con i propri dati personali allo svolgimento di attività di ricerca. In sostanza, per il semplice fatto che egli usufruisce di prestazioni sanitarie la cui qualità dipende da anni di ricerca svolti sulla base dei dati di chi lo ha preceduto, dovrebbe anche lui dare il proprio contributo.
Tale paradigma però si scontra con la realtà di un mondo della ricerca pubblica che non sempre produce evidenze utilizzabili nella pratica al fine di migliorare le attività diagnostiche e terapeutiche. Pertanto il perseguimento di interessi generali da parte di enti pubblici di ricerca non può essere sempre dato per assodato per il solo fatto che non si perseguono scopi di lucro.
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Autore: Maria Luisa Manis
Data di Pubblicazione: 15/02/2018 ora 19:33
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